Il patto di non concorrenza nel rapporto di lavoro subordinato

Il recente contrasto sulla legittimità del diritto di opzione apposto al patto di non concorrenza (PNC), azionabile a discrezione del datore di lavoro, offre lo spunto per ripercorrere lo stato della giurisprudenza che, in questi ultimi anni, ha avuto modo di analizzare questo particolare istituto utilizzato dal datore di lavoro che, in via precauzionale, intende impedire a propri dipendenti di elevata professionalità e specializzazione di ricollocarsi presso imprese concorrenti.

La clausola di non concorrenza è finalizzata a salvaguardare l’impresa da qualsiasi esportazione presso imprese concorrenti del patrimonio immateriale dell’azienda, nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica e amministrativa, metodi e processi di lavoro, ecc.) ed esterni (avviamento, clientela, ecc.), trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle imprese concorrenti (in questi termini Cass. 19 novembre 2014, n. 24662).

La fonte normativa del PNC è l’art. 2125 c.c. che contempera gli interessi dell’impresa con quelli del lavoratore che, forte della sua professionalità, si vede limitato nella ricerca di un più conveniente e remunerato posto di lavoro:

“Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata”.

Partendo dalla norma legale è dunque possibile tracciare, nei seguenti paragrafi, un percorso che definisca i criteri di legittimità di questo patto limitativo della possibilità di concorrenza del lavoratore dipendente:

Natura del PNC

Il patto di non concorrenza è un contratto a prestazioni corrispettive a titolo oneroso con il quale, come si è detto, il lavoratore si impegna a non svolgere attività in concorrenza con quella del suo datore di lavoro, per un determinato periodo successivo alla cessazione del rapporto, in cambio di un corrispettivo, normalmente in denaro.

L’interesse precipuo del datore di lavoro è, come si è detto, quello di tutelare il patrimonio immateriale dell’azienda quali know how, struttura organizzativa e commerciale, processi di lavoro, clientela, avviamento, segreti industriali, conoscenza dei mercati, ecc.

Quanto alla natura del corrispettivo, una recente sentenza della Corte di Cassazione ha precisato che questo non ha natura risarcitoria ma costituisce il corrispettivo di un’obbligazione di non facere (Cass. 26 maggio 2020, n. 9790).

La stessa pronuncia ha aggiunto che il patto non è comunque finalizzato ad incentivare l’esodo del lavoratore, nè costituisce una erogazione che trae origine dalla predetta cessazione, avendo piena autonomia causale rispetto alla fine del rapporto, che è mera occasione del patto.

Peculiarità del PNC nel lavoro subordinato

L’art. 2125 c.c. può applicarsi ai soli lavoratori subordinati per il periodo successivo alla cessazione del rapporto mentre, nel periodo della dipendenza, vige l’art. 2105 c.c. (Obbligo di fedeltà), automaticamente inserito nel contratto di lavoro, a norma del quale, senza oneri e limiti per il datore di lavoro, il lavoratore non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore.

Il PNC è, in ogni caso, facoltativo ed è solitamente diretto a figure apicali o strategiche dell’impresa (ad esempio, direttori commerciali, venditori, tecnici di elevata professionalità), ma è comunque applicabile a tutti i lavoratori dipendenti a prescindere dalla condizione che svolgano o meno mansioni direttive o rilevanti (v. Cass. 19 aprile 2002, n. 5691, che ha ritenuto legittimo il patto stipulato con un commesso addetto alla vendita di capi di abbigliamento in un centro commerciale).

Il patto può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve necessariamente limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto (Cass. 4 aprile 2006, n. 7835; App. Torino sez. lav., 12 giugno 2009; App. Milano sez. lav., 17 marzo 2006); in alcune pronunce si è fatto riferimento alla formazione professionale del lavoratore (Cass. 3 dicembre 2001, 15253).

Non è invece valido il PNC esteso a settori merceologici estranei allo specifico settore produttivo o commerciale del datore del lavoro (Cass. 19 novembre 2014, n. 24662).

Secondo l’interpretazione prevalente, la fattispecie disciplinata dall’articolo 2125 c.c. è autonoma rispetto a quella regolata dall’articolo 2596 c.c. (disciplina generale della concorrenza tra imprese) che non può pertanto trovare applicazione analogica o integrativa.

Il patto di non concorrenza nel rapporto di agenzia è invece regolato dall’art. 1751- bis c.c. e dagli accordi economici di settore laddove applicabili.

Per espressa previsione legislativa (art. 4, comma 6, L. 23 marzo 1981, n. 91), il contratto di lavoro subordinato sportivo non può contenere clausole di non concorrenza o, comunque, limitative della libertà professionale dello sportivo per il periodo successivo alla risoluzione del contratto stesso né può essere integrato, durante lo svolgimento del rapporto, con tali pattuizioni.

Forma scritta e sottoscrizione dell’accordo

La forma scritta è prevista ad substantiam e deve naturalmente riguardare tutti gli elementi costitutivi del patto indicati nell’art. 2125 c.c. (Cass. 19 dicembre 2001, n. 16026; Trib. lav. Perugia 10 ottobre 2018, n. 369; Trib. lav. Milano 22 ottobre 2003).

Il PNC può essere inserito nella lettera di assunzione (oppure come allegato alla stessa) o può essere stipulato durante lo svolgimento del rapporto di lavoro; il patto potrà essere stipulato anche dopo la cessazione del rapporto e, in questo caso, rimangono applicabili le regole previste dall’articolo 2125 c.c. (Cass. sez. Unite, 10 aprile 1965, n. 630).

Una recente sentenza della Suprema Corte, confermando la decisione della Corte di Appello di Bologna, ha ritenuto legittimo, in ipotesi di trasferimento di ramo di azienda ex art. 2112 c.c., l’automatico trasferimento del patto dalla società cedente alla cessionaria, essendo evidente il collegamento funzionale del patto con il contratto di lavoro (Cass. 26 novembre 2021, n. 36940).

Ai fini della legittimità del patto, non è necessaria la sua specifica approvazione per iscritto ai sensi dell’art. 1341, comma 2, c.c., richiesta per le clausole che restringono la libertà contrattuale nei rapporti coi terzi; pertanto, se l’accordo è concluso senza utilizzare moduli o formulari (Trib. lav. Milano 22 ottobre 2003) o è sottoscritto in un separato e specifico documento (Trib. lav. Milano 27 ottobre 2005) non è necessaria la c.d. “doppia firma”.

Corrispettivo

Nella pratica, il compenso per il PNC viene erogato nel corso del rapporto di lavoro (normalmente con un importo fisso mensile o a percentuale sulla retribuzione) oppure a conclusione dello stesso, dopo il licenziamento o le dimissioni del lavoratore, per l’intera somma convenuta eventualmente suddivisa in un numero di rate mensili pari al periodo di validità del patto.

In anni recenti è prevalso nella giurisprudenza di merito un orientamento secondo cui il PNC risulterebbe nullo se il corrispettivo viene pagato in costanza di rapporto senza un minimo garantito concordato tra le parti.

Secondo questa impostazione, la previsione del pagamento di un corrispettivo del patto di non concorrenza durante il rapporto di lavoro viola l’art. 2125 c.c., in quanto, da un lato, introduce una variabile legata alla durata del rapporto di lavoro che conferisce al patto un inammissibile elemento di aleatorietà e indeterminatezza e, dall’altro, facendo dipendere l’entità del corrispettivo esclusivamente dalla durata del rapporto, finisce di fatto per attribuire a tale corrispettivo la funzione di premiare la fedeltà del lavoratore, anziché di compensarlo per il sacrificio derivante dalla stipulazione del patto (App. Milano sez. lav., 28 dicembre 2017, n. 1884; Trib. lav. Milano, 22 agosto 2016; Trib. lav. Milano, 19 marzo 2008; Trib. lav. Milano, 13 agosto 2007).

In particolare, è stato ritenuto non sufficiente un corrispettivo pari al 3% della retribuzione mensile erogato per dieci mesi nel corso del rapporto di lavoro a fronte di un impegno di non concorrenza valido per tutta Europa della durata di ventiquattro mesi (Trib. lav. Milano, 28 settembre 2010).

É stato invece ritenuto valido un PNC che prevedeva la corresponsione in costanza di rapporto di un corrispettivo pari a circa il 2,5% per cento della retribuzione annua e, comunque, l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere a tale titolo al lavoratore una somma complessiva, tenuto conto di quanto già percepito nel corso del rapporto, non inferiore al quaranta per cento dell’ultima retribuzione fissa annua lorda del lavoratore (Trib. lav. Milano, 25 marzo 2011).

Il patto di non concorrenza, quanto al corrispettivo dovuto, non deve prevedere compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato; il corrispettivo del patto di non concorrenza può essere erogato anche in corso del rapporto di lavoro (Cass. 25 agosto 2021, n. 23418).

Infatti, secondo questa pronuncia, la corresponsione del compenso erogato in costanza del rapporto di lavoro e crescente con la sua durata contempera meglio gli interessi di datore di lavoro e lavoratore, perché una più lunga permanenza in un posto di lavoro può rendere più difficile la nuova collocazione sul mercato e, pertanto, un compenso crescente diventa più idoneo a compensare il maggior sacrificio rispetto a un rapporto di lavoro di breve durata.

Nello stesso senso, ancora di recente, si veda anche Cass. 1° marzo 2021, n. 5540, per la quale il PNC è nullo non soltanto in presenza di compensi simbolici, ma anche di compensi che risultino manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore.

Oggetto del PNC

In via generale, il PNC non può restringere l’attività lavorativa che il lavoratore può svolgere dopo la cessazione del rapporto in misura tale da compromettere la sua concreta possibilità di produrre reddito.

È stato comunque precisato che il patto di non concorrenza non deve limitarsi a contemplare le mansioni che il lavoratore ha espletato nel corso del rapporto cui si riferisce, ben potendo ricomprendere anche altre prestazioni che in qualche modo competano con le attività economiche che svolge il datore (Cass. 25 agosto 2021, n. 23418).

In ogni caso, l’ampiezza del patto non deve comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore nei limiti che ne compromettano ogni potenzialità lavorativa e reddituale (Cass. 10 settembre 2003, n. 13282; App. Milano sez. lav., 17 marzo 2006).

Tra gli obblighi accessori che possono essere inseriti nel PNC si segnala la possibilità di prevedere l’obbligo per il lavoratore di segnalare all’ex datore di lavoro, dopo la cessazione del rapporto, le necessarie informazioni sulla nuova occupazione; in caso di inadempimento può essere prevista una penale.

Territorio

In via generale, tanto è più esteso il limite territoriale indicato nel PNC tanto più dovranno essere ridotti i requisiti di durata e oggetto (e viceversa).

Alla stessa stregua di quanto detto sopra in riferimento all’oggetto del patto, l’estensione territoriale prevista nell’accordo non deve impedire al lavoratore una residua ed effettiva possibilità di ricercare una nuova occupazione confacente alla sua professionalità.

È stato quindi dichiarato nullo il PNC:

– che include attività estranee all’oggetto sociale dell’impresa datrice di lavoro o ha ad oggetto attività generiche e viene esteso a tutto il territorio nazionale (App. Milano sez. lav., 7 giugno 2017, n. 923; v. anche App. Milano sez. lav., 19 agosto 2019, n. 1253);

– esteso a tutto il territorio dell’Unione europea e ad un intero settore merceologico (Trib. lav. Pordenone, 5 giugno 2014);

– riferito sia all’Italia che (del tutto genericamente) all’estero (Trib. lav. Ravenna 24 marzo 2005).

È stato invece dichiarato legittimo il PNC:

– di un dipendente, assunto con qualifica di addetto marketing ufficio estero presso una società leader a livello internazionale nel suo settore che si era impegnato ad astenersi da attività in concorrenza in territorio italiano ed europeo per i tre anni successivi alla cessazione del rapporto (Cass. 10 settembre 2003, n. 13282; nello stesso senso v. anche Cass. 11 ottobre 2003, n. 15253 e Trib. lav. Milano 3 maggio 2005).

Per “luogo” (cui fa riferimento l’art. 2125 c.c.) deve intendersi non la sede del nuovo datore di lavoro ma l’effettiva area di interesse sulla quale andrà realmente a svolgersi l’attività del lavoratore (Cass. 2 maggio 2000, n. 5477).

Durata

Il divieto di concorrenza deve essere circoscritto nei precisi limiti massimi di tempo indicati dall’art. 2125 c.c. (5 anni per i dirigenti e 3 per quadri, impiegati e operai).

Qualora sia erroneamente previsto un periodo più lungo, il PNC non diviene nullo ma la sua durata viene ricondotta nei predetti limiti.

L’estensione temporale del PNC, unitamente agli altri presupposti di validità, deve essere considerata alla luce della concreta professionalità del lavoratore obbligato (Trib. lav. Milano, 12 luglio 2007).

Così, ad esempio, un patto avente la durata massima prevista dall’art. 2125 c.c. potrebbe risultare legittimo se contenuto in un limitato ambito territoriale mentre potrebbe non esserlo nell’accordo se si fa riferimento a territori molto ampi.

Il diritto di opzione e il diritto di recesso

La questione della legittimità del diritto di opzione (art. 1331 c.c.), che attribuisce al solo datore di lavoro la facoltà di decidere se attivare o no il patto, e del diritto di recesso unilaterale, sempre a favore del datore di lavoro, è, da tempo, una delle questioni più controverse nella giurisprudenza sul PNC.

Ad un primo indirizzo, soprattutto nelle corti di merito, che li ritiene legittimi se ne contrappone un altro, di recente richiamato dalla Cassazione, che invece, dopo iniziali e risalenti oscillazioni (v. Cass. 24 ottobre 1980, n. 1968, e Cass. 10 aprile 1978, n. 1686), propende ora senz’altro per la loro nullità.

A favore della legittimità del diritto di opzione apposto ad un PNC si è espressa la Corte di Appello di Milano secondo cui, in un caso in cui il datore di lavoro non aveva esercitato questo diritto, il patto non si sarebbe in realtà mai perfezionato e non vi sarebbe comunque stata compromissione della libertà contrattuale del lavoratore che si era dimesso volontariamente e aveva già trovato una nuova occupazione (App. Milano sez. lav., 2 settembre 2019, n. 908).

Da ultimo, la Corte di Cassazione, richiamando anche altri recenti precedenti, ha di contro ritenuto nulla, per contrasto a norme imperative, la previsione della risoluzione del PNC rimessa al mero arbitrio del datore di lavoro, anche se esercitata in costanza di rapporto (Cass. 1° settembre 2021, n. 23723, che richiama, tra le altre, Cass. 3 giugno 2020, n. 10536).

Si segnala – peraltro – che in precedenza la stessa Corte aveva dichiarato legittimo il diritto di opzione in capo al datore di lavoro, al fine di vincolare o liberare il dipendente dal PNC, distinguendolo dal diritto di recesso (Cass. 26 ottobre 2017, n. 25462; contra v. Cass. 2 gennaio 2018, n. 3; Cass. 4 aprile 2017, n. 8715; Trib. lav. Milano, 3 maggio 2005).

Per Cass. 8 gennaio 2013, n. 212, il diritto di recesso deve ritenersi senz’altro nullo in quanto, in contrasto con gli articoli 4 e 35 della Costituzione, rappresenterebbe una grave ed eccezionale limitazione alla libertà di impiego del lavoratore (nello stesso senso v. anche Cass. 3 giugno 2020, n. 10535; App. Milano sez. lav., 25 maggio 2018, n. 640).

Secondo la Corte, l’obbligazione di non concorrenza a carico del lavoratore sorge al momento della sottoscrizione dell’accordo e, in caso di recesso unilaterale da parte del datore di lavoro, si impedirebbe illegittimamente al dipendente di progettare il proprio futuro lavorativo e valutare eventuali offerte di lavoro da imprese in concorrenza.

La nullità del diritto di opzione e del diritto di recesso non comporta comunque la nullità dell’intero PNC e, in applicazione del principio di conservazione dei negozi giuridici (art. 1419 c.c.), l’accordo rimane valido nelle altre parti essenziali e, soprattutto, residua il diritto del lavoratore a ricevere il corrispettivo pattuito (Trib. lav. Ancona 13 giugno 2017).

Si segnala comunque un diverso orientamento per il quale dalla dichiarazione di nullità della clausola di opzione deriva la nullità dell’intero PNC in quanto risultava dimostrato che il datore di lavoro non lo avrebbe concluso senza l’inserimento di quella clausola (Trib. Milano, Sez. lav., 1° agosto 2009).

PNC nullo e restituzioni

Di norma, alla nullità del patto consegue l’obbligo per il lavoratore di restituire le somme erogategli nel tempo a tale titolo, da considerarsi indebito oggettivo ai sensi dell’art. 2033 c.c.

Così, ad esempio, nel caso in cui l’oggetto del divieto di concorrenza sia determinato in modo così ampio da impedire al dipendente di esplicare la propria professionalità da ultimo acquisita, la nullità del PNC comporta per il lavoratore, pur liberato dall’obbligo, l’obbligo di restituzione dei corrispettivi al riguardo percepiti (Trib. lav. Milano 18 novembre 1992; nello stesso senso, in un caso di indeterminatezza del corrispettivo, v. anche App. Milano sez. lav., 23 settembre 2021, n. 1086; Trib. lav. Milano 26 maggio 2021, n. 1189; Trib. lav. Modena 23 maggio 2019).

Si ritiene che il datore di lavoro possa ripetere dal dipendente soltanto le somme nette effettivamente percepite e non anche le ritenute fiscali operate quale sostituto d’imposta e mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente (Cass. 25 luglio 2018, n. 19735; Trib. lav. Milano 26 maggio 2021, n. 1189).

Invece, per altra giurisprudenza di merito, il corrispettivo in favore del lavoratore deve essere determinato o determinabile all’atto della sottoscrizione e non può dipendere dall’effettiva durata del rapporto di lavoro, ma dall’invalidità della pattuizione non consegue la restituzione delle somme percepite (Trib. lav. Bergamo 8 agosto 2019).

Ove venga erogato in 13 rate mensili o sia riparametrato sui giorni effettivamente lavorati, il corrispettivo potrebbe anche essere considerato una sorta di superminimo facente parte della retribuzione ordinaria e, quindi, non soggetto a ripetizione (Trib. lav. Milano 31 maggio 2017, n. 1368; Trib. lav. Milano 14 aprile 2016, n. 1131).

Strumenti di tutela in caso di violazione del PNC

In caso di violazione del patto da parte del lavoratore il datore di lavoro può:

– risolvere l’accordo per inadempimento;

– chiedere, come si è sopra anticipato, la restituzione del corrispettivo già erogato:

– se previsto dall’accordo, chiedere il pagamento di una penale (art. 1382 e ss., c.c.) che prescinde dalla prova di avere effettivamente subito un danno;

– chiedere il risarcimento degli ulteriori danni ove vengano provati in giudizio.

In alternativa, il datore di lavoro potrebbe agire per ottenere l’adempimento dell’accordo ed anche richiedere dall’Autorità Giudiziaria un provvedimento di urgenza ex art. 700 c.p.c. che ordini al lavoratore inadempiente al PNC di cessare il rapporto di lavoro con l’impresa concorrente con quella dell’ex dipendente (Trib. lav. Milano 9 settembre 2019; Trib. lav. Roma, 16 luglio 2020; Trib. lav. Milano 12 febbraio 2002; Trib. lav. Bologna 29 gennaio 2002); in quest’ultimo caso resta

comunque onere del datore di lavoro dimostrare il rischio concreto di un pericolo grave ed imminente (fatto in ogni caso salvo il risarcimento del danno).

Anche il lavoratore potrebbe agire in via preventiva e precauzionale per ottenere giudizialmente la declaratoria di nullità del PNC (Trib. lav. Roma 18 maggio 2006, che ha peraltro respinto la richiesta dell’ex dipendente).

Naturalmente, in caso di inadempimento da parte del datore di lavoro (mancato pagamento del compenso ancora dovuto dopo la cessazione del rapporto), il lavoratore può alternativamente chiedere:

– la risoluzione dell’accordo di non concorrenza; – il pagamento del residuo corrispettivo.

Inoltre, l’ex dipendente potrebbe chiedere anche il risarcimento del danno subito per la perdita di chance lavorative (ad esempio, per avere perso occasioni di lavoro con aziende concorrenti con quella del precedente datore di lavoro).

Profili previdenziali e fiscali

Dalla natura retributiva del PNC, di cui si è fatto cenno sopra, discende naturalmente la sua equiparazione alla ordinaria retribuzione.

Infatti, per Cass. 15 luglio 2009, n. 16489, rientra nella base imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali e assistenziali tutto ciò che il lavoratore riceve in dipendenza o in occasione del rapporto di lavoro e – dunque – costituisce retribuzione imponibile il corrispettivo del patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c., anche se pagato dal datore di lavoro successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro, in quanto emolumento erogato in dipendenza di un rapporto di lavoro subordinato (anche se per un’obbligazione di non facere da adempiere nel tempo successivo alla sua cessazione) e in funzione di un compenso a fronte delle limitazioni lavorative per tale tempo convenute.

Nello stesso senso si era già espressa, in riferimento a corrispettivi erogati unitamente alle retribuzioni mensili (in misura fissa o a percentuale), anche Cass. 4 aprile 1991, n. 3507.

Nel caso in cui il compenso venga corrisposto mensilmente in costanza di rapporto di lavoro il relativo ammontare sarà soggetto a contribuzione previdenziale e a tassazione fiscale ordinaria (art. 51 TUIR) e, inoltre, concorrerà a formare base utile per il calcolo del TFR.

Se – invece – il corrispettivo viene pagato successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro, ferma, secondo l’interpretazione prevalente, l’imponibilità contributiva, a questa somma è applicabile il trattamento fiscale della tassazione separata (art. 17, comma 1, lett. a, TUIR).

Fonte “Il quotidiano Giuridico”, di Apollonio Donato Avvocato in Milano